Celestia e Mantra, da star crypto a simboli del crollo: cosa è andato storto?
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Fino a qualche anno fa il mercato crypto aveva le sue gerarchie. Bitcoin ed Ethereum erano considerate criptovalute relativamente stabili e solide, mentre le altcoin erano redditizie ma anche molto più rischiose. All’ultimo gradino c’erano invece le meme coin, altamente speculative e senza alcun caso d’uso.
Ad oggi la situazione è profondamente cambiata.
Bitcoin ha accresciuto la sua forza grazie agli ETF, mentre Ethereum, nonostante sia l’unica altcoin ad avere un ETF Spot, appare in difficoltà.
Anche le altcoin hanno perso gran parte del loro status. Tranne rarissime eccezioni, molte sono crollate come neve al sole dopo l’ultima Bull Run, mentre alcune hanno tradito gli investitori con scelte poco chiare, dimostrando la fragilità dei progetti crypto alternativi a Bitcoin.
In particolare, alcune crypto sono state protagoniste di fatti spiacevoli, che potrebbero minare per sempre la fiducia in questo segmento. Qualche esempio? Mantra e Celestia.
Che cosa è successo a Mantra?
Era uno dei token più interessanti del 2024, un pilastro della tokenizzazione crypto, e aveva fatto sognare gli investitori con un fantastico rally che aveva permesso al token OM di passare da pochi centesimi agli 8 dollari.
Ad aprile 2025 Mantra ha però subito uno dei crolli più devastanti nella storia delle criptovalute: in poche ore il prezzo è precipitato da 6,32 a 0,49 dollari, travolto da liquidazioni forzate.
I dettagli della vicenda sono stati parzialmente ricostruiti. Secondo il co-fondatore di MANTRA, la causa principale del crollo sarebbe da attribuire a “liquidazioni sconsiderate” da parte di alcuni exchange, che avrebbero chiuso posizioni su OM senza preavviso durante ore di bassa liquidità.
Le analisi on-chain hanno rilevato che 17 wallet hanno depositato 43,6 milioni di OM su exchange poco prima del crollo, circa il 4,5% dell’offerta circolante. I wallet sono stati associati ad alcuni investitori strategici, anche se tutti negano.
Per arginare la crisi, il CEO John Mullin ha annunciato un burn di 300 milioni di token, nella speranza di ridurre l’offerta e contenere le perdite. Ma il danno ormai è fatto: OM ora vale poco più di 0,20 dollari, ed è in caduta libera rispetto ai massimi di febbraio.

Secondo l’analista Ishmael Asad, il crollo di Mantra ha avuto origine con la dilatazione dell’offerta circolante, avvenuta solo pochi giorni prima del crollo.
Lo stesso Asad aveva chiesto al CEO quando sarebbe iniziato il crollo, come è possibile apprezzare in questo scambio di battute su X. Mullin chiede: perché? E lui risponde: supply raddoppiata e solo il 50% è circolante.

Insomma, molto probabilmente la verità non si saprà mai. L’unica cosa che possiamo aggiungere è che non si è trattato di un Rug Pull con fuga del team. Il CEO è ancora saldamente al comando e sta facendo di tutto per recuperare la situazione, anche se le speranze sono ridotte al lumicino.
Che cosa è successo a Celestia?
Anche il tracollo di Celestia (TIA) non è arrivato all’improvviso, ma ha seguito un copione già visto nel mondo crypto: entusiasmo iniziale, salita vertiginosa del prezzo del token, distribuzione anticipata e infine il crollo.
Dopo aver raggiunto un massimo storico intorno ai 20 dollari nel primo trimestre 2024, il token ha perso oltre il 90% del proprio valore, precipitando sotto i 2 dollari tra accuse di dumping e vendite da parte degli insider.

La community si è spaccata in due: da un lato c’è ancora chi ha ancora fiducia nella visione a lungo termine di Celestia, fondata sull’idea di una blockchain modulare che separa il consenso dalla disponibilità dei dati. Per questa parte della community, Celestia rappresenta una scommessa che richiede tempo per maturare e attrarre adozione reale.
Cresce però anche il fronte critico che accusa il team di aver gestito male lo sblocco dei token, favorendo i primi investitori e i partner strategici a scapito della trasparenza e della fiducia generale.
A peggiorare le cose c’è anche una questione tecnica: alcuni analisti sono convinti che Celestia non abbia ancora trovato una reale corrispondenza tra il prodotto offerto e le esigenze del mercato, con pochi casi d’uso concreti e un’adozione che è rimasta limitata.
Il 24 giugno, in risposta al malcontento crescente, il co-fondatore Mustafa Al-Bassam è intervenuto sui social per smentire le accuse di insider trading e abbandono del progetto, definendole un “ridicolo FUD”, sottolineando che il team è ancora saldamente al suo posto, con oltre 100 milioni di dollari in tesoreria e un orizzonte di sostenibilità di almeno sei anni.
Eppure, nonostante le rassicurazioni, i problemi restano: lo sblocco anticipato dei token dei fondatori e dei partner strategici ha sollevato dubbi sulla reale decentralizzazione del progetto. Il mercato ha reagito con sfiducia, spingendo TIA in una spirale discendente.
Un altro punto critico riguarda il ruolo che Celestia avrebbe dovuto ricoprire come layer di riferimento per la disponibilità dei dati (data availability, o DA) nel nuovo paradigma dei rollup.

Fonte: Celestia Labs
In teoria, la sua struttura modulare la rende perfetta per fornire uno spazio dove i rollup, ovvero blockchain di secondo livello che demandano sicurezza e consenso a un layer sottostante, possano pubblicare i propri dati in modo efficiente e decentralizzato. Nella pratica, questa funzione chiave non ha ancora trovato una vera adozione.
Nonostante il co-fondatore Al-Bassam affermi che Celestia detenga il 50% del mercato DA, molti sviluppatori sembrano orientarsi altrove: progetti come EigenLayer o Avail, che offrono soluzioni alternative per la disponibilità dei dati, stanno ricevendo più finanziamenti e integrazioni.
Il motivo? La percezione che queste alternative abbiano maggiore maturità tecnologica e incentivi più chiari per chi costruisce. Ecco perché Celestia si trova oggi in una posizione paradossale: pur avendo anticipato il trend della modularità, rischia di essere superata sul piano dell’adozione proprio nel segmento che avrebbe dovuto dominarne il mercato.
L’ultimo atto sulla vicenda arriva da uno dei co-fondatori, John Adler, che ha proposto di abbandonare il meccanismo di consenso Proof of Stake (PoS) per sostituirlo con un nuovo sistema sperimentale denominato Proof of Governance (PoG)
L’obiettivo è ambizioso: semplificare la struttura di sicurezza della chain eliminando la necessità di meccanismi complessi come il liquid staking, ovvero quei sistemi che permettono agli utenti di mettere in staking i propri token ricevendo in cambio versioni “liquide” da utilizzare altrove.
Ma la parte interessante riguarda il potenziale impatto sull’emissione del token. Secondo Adler, separando il concetto di sicurezza dal Revenue Extraction Value (REV), ovvero dal valore economico che si genera attraverso l’utilizzo della chain, la PoG permetterebbe di ridurre il tasso di inflazione annua di TIA: dall’attuale 5% a circa lo 0,25%. Il tutto, a suo dire, senza compromettere la sicurezza del network.
Ancora una volta la parabola discendente di Celestia sembra figlia di una combinazione di fattori: hype eccessivo al debutto, tempistiche di sblocco dei token poco trasparenti e un ecosistema acerbo. La tecnologia modulare ha ancora potenzialità, ma la fiducia del mercato, una volta incrinata, non si recupera con un post su X.
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