La Blockchain finirà come Internet: dominata dalle Big Tech
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Quando Satoshi pubblicava il whitepaper di Bitcoin nel 2008, il suo intento era chiaro: fornire al mondo un sistema di pagamento peer-to-peer capace di eliminare il ruolo degli intermediari, dalle Big Tech che controllano la comunicazione, fino alle banche.
L’idea era quella di Reti aperte, pubbliche e decentralizzate, con transazioni verificabili da chiunque e commissioni bassissime. Quindici anni dopo, lo scenario sembra essersi ribaltato. L’adozione mainstream non ha portato la libertà auspicata, o almeno non ovunque.
Che tipo di blockchain stanno costruendo le Big Tech?
Non tutte le blockchain sono uguali. Quelle dei colossi tecnologici non hanno infatti niente a che vedere con Bitcoin o Ethereum, nate per essere completamente permissionless e senza un controllo centralizzato.
L’adozione mainstream ha scatenato l’arrivo delle corporate chains: blockchain costruite, possedute e gestite direttamente dalle big company. Gli esempi lampanti sono quelli di Circle, Stripe e Google, vediamoli nel dettaglio.

Circle una blockchain con il Twist
Arc di Circle è un layer-1 compatibile con Ethereum, ma con un twist che lo distingue dalle chain tradizionali. Primo: le fee (le commissioni, ndr) non si pagano con token nativo, ma direttamente in USDC.
Questo rende i costi prevedibili e perfetti per i pagamenti, ma lega la rete in modo indissolubile al controllo di Circle e alla sua stablecoin. Secondo: il motore di consenso non è PoW né PoS aperto, ma un BFT (Byzantine Fault Tolerant) sviluppato ad hoc e progettato per garantire velocità e finalità immediata.
Il rovescio della medaglia? Funziona con pochi validatori conosciuti, quindi la decentralizzazione qui è più una promessa che realtà.
Stripe: la blockchain per i pagamenti
Stripe ha scelto invece una blockchain che non utilizza una sola stablecoin ma supporta tutte le più importanti come USDC, USDT, DAI, EUROC e molte altre.
Questo approccio “multi-stablecoin” la rende appetibile per e-commerce e merchant internazionali, che non rischiano di restare vincolati a un solo asset digitale. Al suo interno integra un AMM (Automated Market Maker) nativo: un protocollo che gestisce pool di liquidità e calcola automaticamente i prezzi, permettendo conversioni rapide e a basso costo tra stablecoin direttamente sulla chain.
In pratica, un venditore può ricevere in USDT e convertirlo subito in EUROC o USDC senza passare da exchange esterni. Un’infrastruttura efficiente, pensata per far girare i pagamenti globali, ma pur sempre un layer-1 sotto il controllo di Stripe.
La GCUL di Google: credibly neutral
La GCUL di Google (Google Cloud Universal Ledger) è invece una blockchain permissioned, ovvero accessibile solo a banche e istituzioni autorizzate, con smart contract scritti in Python per semplificare lo sviluppo.
La governance rimane saldamente nelle mani di Google, che decide regole, validatori e roadmap. Per legittimarla Mountain View la definisce “credibly neutral”, ma la neutralità qui non deriva dal codice o da una governance distribuita, come avviene per Ethereum, ma attraverso il marchio Google.
In altre parole: bisogna fidarsi della promessa dell’azienda di restare imparziale, non di una struttura decentralizzata. È una neutralità di facciata, costruita sulla reputazione, non sull’architettura. Un binario chiuso che replica la logica delle infrastrutture proprietarie: efficiente, integrato, ma lontano anni luce dallo spirito delle crypto.
La tecnologia si piega al potere
La storia della tecnologia ci ricorda che ogni innovazione, nel tempo, tende a piegarsi al potere.
Internet, negli anni ’70 e ’80, nasce come progetto militare e accademico: ARPANET prima, poi TCP/IP come protocollo universale. L’idea era semplice e rivoluzionaria: una rete distribuita, capace di funzionare anche se una parte veniva interrotta. Una rete senza padroni, dove ogni nodo poteva parlare con l’altro senza chiedere il permesso.

Negli anni ’90, con la nascita del Web, quella promessa sembrava compiersi: c’era la libertà di pubblicare, di condividere e comunicare senza barriere.
Ma con il tempo è arrivata la concentrazione. I motori di ricerca, i social network e gli app store hanno progressivamente centralizzato l’accesso. Oggi Internet, di fatto, è dominata da poche piattaforme che controllano traffico, dati e monetizzazione.
La blockchain nasceva per spezzare il ciclo: rimettere al centro l’individuo, con strumenti di scambio e di valore non censurabili e senza intermediari. Ma se saranno le corporate chains a dettare l’agenda, il rischio è di avere lo stesso copione: da rete libera e distribuita a infrastruttura centralizzata, dove a cambiare è solo il nome.
Riusciranno le criptovalute a rimanere fedeli alla loro storia? Se il controllo rimarrà nelle mani delle aziende la parabola di Bitcoin rischia di somigliare a quella di Internet: una promessa di libertà svanita nel nulla.
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